A forgotten masterpiece.

Richie_Kotzen_-_Mother_Head's_Family_Reunion-cdMother’s Head Family Reunion | Richie Kotzen (MCA Records, 1994) Ecco un piccolo capolavoro capace di destarmi dal parziale torpore musicale al quale mi stavo abituando verso la metà degli anni ’90. Morta la scena musicale di Los Angeles – intendo quella tutto lustrini, rossetti e lacca killer – il rock del nuovo decennio riportava in auge un modo di suonare più ritmico e dischi con ben altro spettro sonoro, profondo e definito. Tutto appariva più vero, più suonato e più emozionante. Mother’s Head Family Reunion fa parte, come altri dischi, di questa piccola primavera musicale, molto gradita se vi partecipa un artista del calibro di Richie Kotzen, funambolico chitarrista e, questa volta, anche superbo cantante. Blues, rock, funk e qualche progressione fusion-jazz, vengono mescolati a splendide melodie soul, sostenute dall’agile drumming del grande Atma Anur e dal basso pulsante di John Pierce. Il livello dall’album si mantiene sempre incredibilmente alto, con soluzioni e arrangiamenti vocali degni dei migliori ellepì di black music, che rendono Mother’s Head Family Reunion un prezioso disco di musica americana, di quelli senza tempo, che consiglierei davvero a chiunque. Top songs: Used and Cover Me.

No, No e No!

Kiss_crazy nights_albumCrazy Nights | Kiss (Mercury Records, 1987) Crazy Nights fa parte di quel trittico di album piuttosto trascurabili che culmina nel deludente ed incerto Hot in the Shade, del quale scrissi un paio di giorni fa. Quel che lo distingue sono il suono – in linea con le migliori produzioni del tempo – e la coerenza stilistica. Dalla prima traccia all’ultima, Crazy Nights avanza infatti uniforme e senza sbavature, lasciando in ombra l’anima originaria della band, rimpiazzandola con un rock plastico e radiofonico. Tre episodi sono degni di nota: la piacevole title track, Reason to Live – ballad ultra patinata alla Foreigner – e Turn On the Night, a mio parere il pezzo più convincente del disco. Il resto è al di sotto alla linea di galleggiamento che la mia indulgenza di diciottenne tracciò al tempo. L’abisso lo abbraccia ancora una volta Gene Simmons con No, No, No, pessima canzone introdotta da un inutile, anonimo, assolo di Kulick. Forse ha ragione il buon mikeladano a considerare il periodo in questione come “the absolute lowest point of this era of Kiss”. Difficile ascoltare oggi Crazy Nights con lo stesso, innocente, entusiasmo di allora. 5/10

One of the worst.

Hot_in_the_shade_coverHot in the Shade | Kiss (Mercury Records, 1990). Ascolto l’album sul tragitto casa – lavoro – casa. Alcuni momenti di gloria, seppur piuttosto modesta, ci sono. Quindici canzoni però sono decisamente troppe. Rise To It, Betrayed, Hide Your Heart e Silver Spoon funzionano. Bruce Kulick è davvero un chitarrista notevole, Eric Carr non tradisce le aspettative e canta pure un discreto pezzo, Little Caesar. Poi il disco va in picchiata fino a Boomerang, la più brutta canzone scritta dai Kiss. Hot in the Shade è un album intermedio, ha un sound povero e una copertina orribile. Inferiore al tanto vituperato Crazy Nights, superiore per coerenza e stile. 3/10.

GEMS: Face to Face.

the_kinks_-_1966_face_to_faceFace to Face | The Kinks (Pye Records, 1966) Spesso ci dimentichiamo di quante grandi canzoni hanno scritto i Kinks. Un’ottima occasione per rendersene conto potrebbe essere sarebbe quella di acquistare/procurarsi Face to Face e prendersi un paio d’ore per ascoltare quello che Ray Davies scriveva nel 1966. In questo album c’è una presenza quasi ingombrante di idee – entità oggi sconosciute – di brillanti sequenze di accordi e di testi, amari e sarcastici, che gettano uno sguardo piuttosto acuto sull’Inghilterra del tempo. Se, nel cuore dei Sixties, poche band potevano sostenere il confronto con i Beatles senza andare giù alla prima ripresa, bene, sappiate che i Kinks terminavano il match sempre in piedi.  I’ll Remember anticipa addirittura alcune svolte stilistiche del quartetto di Liverpool e Holiday In Waikiki entra senza bussare un attimo in casa degli Stones. D’altronde, è dalla loro penna che è uscita solo due anni prima la fondamentale You Really Got Me. Se riuscite a non preoccuparvi troppo del sound, abbastanza scarno ed essenziale, rischiate di trovarvi dei nuovi compagni di viaggio e mettere le basi per una lunga amicizia. La ristampa digitale di Face to Face contiene anche due perle come Dead End Street e I’m Not Like Everybody Else. Top song: A House in the Country.

Bay Area Fury.

Metallica_-_Kill_'Em_All_coverKill’em all | Metallica (Megaforce Records, 1983) Kill’em all contiene diversi motivi per farsi apprezzare. Ha un sound autentico, grezzo e puzza di sala prove. Contiene almeno due classici del metal – Seek & Destroy e Whiplash – e se penso che, nell’anno della sua pubblicazione, uscivano film come Lo Squalo 3D e Flashdance, possiamo serenamente collocarlo nella preistoria. Non è il miglior album dei Metallica, ma ha il merito di gettare il ponte tra l’heavy metal inglese e la scuola americana della west coast, rapida e spietata, capace di arruolare il punk e disciplinarlo a base di riff ossessivi, ripetuti e taglienti. Hit The Lights, The Four Horseman e Motorbreath sono la sequenza formidabile che riscrive il manuale del perfetto disco heavy rock per almeno un lustro a venire. Poco importa che alcuni assoli collaborino con il mio mal di testa e la voce di James Hetfield sia ubriaca di riverbero, Kill’em all è un disco importante, segna la nascita del thrash e possiede quella vena d’ira e furore adolescenziale indispensabile per alzare la testa. Top song: Whiplash.

U2. Prometto di ascoltarlo.

U2 songs of innocenceE’ uscito l’ultimo disco degli U2. Prometto di ascoltarlo. Perché gli ho amati, perché almeno tre album loro stanno nella storia della musica pop rock, perché sguainare la spada e mozzare la testa all’artista è un gioco facile. Ma la tentazione è stata tanta, soprattutto quando sono venuto a conoscenza dell’affare con Apple. Quanta tristezza nel vedere l’idea U2 sbriciolarsi ulteriormente tra le colonne del tempio del marketing, passare dal vinile alla volgare plastica per telefoni, più o meno evoluti. Bono blatera dell’esigenza di arrivare a centinaia di milioni di persone in un attimo, era insomma un’occasione unica. Viene facile fare dell’ironia. Però, nel medesimo tempo, cresce una discreta dose di autunnale sconforto. Perché, sapere gli U2 così allineati – anche come immagine – a un certo sistema, non è una bella notizia. Era piacevole credere alla favola che fossero in qualche modo dalla nostra parte, che potessero rappresentare, nel nostro ingenuo immaginario, una speranza o una voce riconoscibile e fuori dal coro. D’accordo, i loro ultimi album sono stati quasi imbarazzanti e Unforgettable Fire è ormai un delirio caldo e lontano nel tempo, ma partecipare alla globale omologazione come abbaglianti protagonisti è un altro film, piuttosto lontano da quello che fa vibrare le corde di qualsiasi appassionato di rock, pop e faccende affini. Ho la viva sensazione che qualcosa sia definitivamente morto in loro. Forse pure in me.