For 2 | Alva Noto (Line, 2010) Alva Noto conosce il modo per far oscillare quel qualcosa che noi chiamiamo comunemente anima, una dimensione quasi ignota e misteriosa per natura. Ascoltare For 2 è come rendere disponibile il proprio universo sensoriale a una piacevole intrusione, lasciando che ogni strumento intervenga con la delicatezza e la determinazione asettica del digitale. C’è un fascino particolare nascosto in questi suoni e nel loro procedere, come se qualcuno stesse cercando di rivelarci qualcosa che sta dentro di noi. Una nuova frontiera del rumorismo che preferisce la notte, il silenzio e l’individuo. Qui, il rock, il mondo malato e l’urlo liberatorio che cerchiamo nella musica consueta si fottono. Non sempre è necessariamente un male.
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U2. Prometto di ascoltarlo.
E’ uscito l’ultimo disco degli U2. Prometto di ascoltarlo. Perché gli ho amati, perché almeno tre album loro stanno nella storia della musica pop rock, perché sguainare la spada e mozzare la testa all’artista è un gioco facile. Ma la tentazione è stata tanta, soprattutto quando sono venuto a conoscenza dell’affare con Apple. Quanta tristezza nel vedere l’idea U2 sbriciolarsi ulteriormente tra le colonne del tempio del marketing, passare dal vinile alla volgare plastica per telefoni, più o meno evoluti. Bono blatera dell’esigenza di arrivare a centinaia di milioni di persone in un attimo, era insomma un’occasione unica. Viene facile fare dell’ironia. Però, nel medesimo tempo, cresce una discreta dose di autunnale sconforto. Perché, sapere gli U2 così allineati – anche come immagine – a un certo sistema, non è una bella notizia. Era piacevole credere alla favola che fossero in qualche modo dalla nostra parte, che potessero rappresentare, nel nostro ingenuo immaginario, una speranza o una voce riconoscibile e fuori dal coro. D’accordo, i loro ultimi album sono stati quasi imbarazzanti e Unforgettable Fire è ormai un delirio caldo e lontano nel tempo, ma partecipare alla globale omologazione come abbaglianti protagonisti è un altro film, piuttosto lontano da quello che fa vibrare le corde di qualsiasi appassionato di rock, pop e faccende affini. Ho la viva sensazione che qualcosa sia definitivamente morto in loro. Forse pure in me.
Perché un disco di Paul McCartney.
Chaos and Creation in the Backyard | Paul McCartney (Parlophone/EMI, 2005) Perché scrive e interpreta la musica popolare, l’ha inventata e continua a frequentarla con invidiabile verve. Chaos and Creation in the Backyard suona più fresco e immediato di qualsiasi disco di Robbie Williams, offre linee melodiche intriganti e arrangiamenti musicali che aggiornano il manuale del musicista pop. Infine, questa diavolo di voce. Un dono in eredità dal secolo scorso, ancora così attuale e riconoscibile da rendere inutile la maggior parte dei cantanti rock di oggi. Nigel Godrich, già produttore di Radiohead e Pavement, ci mette del suo. Vi segnalo Jenny Wren, Promise To You Girl e la bellissima Anyway. Un disco che impreziosirà la vostra discoteca, non esitate a procurarvelo.
David Jones, dieci anni dopo.
The Next Day | David Bowie (Sony, 2013) David Bowie mi è decisamente mancato. Tutti si domandavano dove fosse finito. C’era chi affermava fosse malato, stanco e con i bagagli già sul disco volante che un giorno – speriamo il più tardi possibile – lo riporterà a casa. Invece, eccolo qui, silenziosamente, tornare alla luce della ribalta. The Next Day ha una cover che sembra uno scherzo, una serie di canzoni ispirate e gode della produzione dell’amico di lunga data Tony Visconti. Se a volte suona troppo denso e straripante di elementi – non sempre un buon segno – con il passare del tempo e degli ascolti si offre sempre più a fuoco, convincente ed eclettico. Insomma, un bel disco di Bowie, di quelli dove i riferimenti al suo passato, anche al venerato periodo berlinese, si mescolano perfettamente con il suono elastico e potente degli ultimi lavori. Oltre ai due singoli e alla accattivante title track, degne di considerazione sono Love is Lost, I’d Rather Be High e Valentine’s Day, esplicito tributo a Ray Davies. Bene così, davvero.
Il tramonto è lontano.
Old Ideas | Leonard Cohen (Columbia, 2012) Pur non conoscendo bene la sua notevole discografia, so per certo che Leonard Cohen possiede tutti i numeri per diventare uno dei miei autori preferiti. Per ora lo tengo chiuso in dispensa. Raccolgo qualche saggio della sua infinita bravura qua e là, senza impegnarmi troppo, quasi distrattamente. Ecco allora Old Ideas, un lavoro accurato, interpretato da una band che si muove sorniona su spartiti e testi mai banali. Classe, classe e ancora classe. Le sfumature della voce di Cohen, sempre più scura e tenebrosa, fanno il resto. Io, se fossi in voi, un ascolto glielo darei.
London South.
Morrissey | Vauxhall and I (Sire, 1994) Morrissey ha la grazia e l’incanto negli occhi, chiari, sensibili e scaltri. Quelli che ti fissano in ogni intervista, consapevoli di avere una storia musicale importante, coerente e sofferta, in questi ultimi anni radiosa, libera da condizionamenti e tesa a consegnare, uno dopo l’altro, dischi sempre degni di nota (Years of Refusal per esempio). Ascoltare oggi Vauxhall and I mi ricorda che la classe e il portamento, anche musicale, consegnano nelle tue mani le chiavi per durare nel tempo, senza alterazioni sospette o repentini cambi di rotta. Semplicemente migliorando, perfezionandosi pure nel modo di cantare, che oggi appare sempre più sicuro e ricco di sfumature. Anche senza Johnny Marr e lontano dai giorni di Panic e Girlfriend in a Coma, Morrissey scrive alcune delle sue cose migliori, riuscendo a spegnere sul nascere il desiderio di una, improbabile, reunion degli Smiths. Impresa davvero difficile, in se il presente ha terrore di sé e lo sguardo sempre rivolto al passato. Morrissey non resuscita, vive tra noi. 10 e lode.