Hit and Run: Underdogs, l’intervista.

Ecco gli Underdogs con un nuovo disco! E mi dico: “Speriamo che non sia registrato come il Underdogsprecedente!”. Al contrario, questo suona bene e si regge su un impianto melodico di grande impatto, con la voce di Simon – bassista e contagioso frontman – sempre in bella evidenza. Tutto è più rock, questa è la novità. Quasi il gruppo avesse inaugurato una nuova fase, forse leggermente più mainstream e nello stesso tempo più libera e avventurosa. Bellissime a mio parere sono Lies to Take Away, Nothing but the Best e Time Fighters, ma le impressioni rimangono positive anche quando gli Underdogs fanno visita ai Cardigans, reinterpretando My Favourite Game. Raccolgo le parole di Simon dopo una serata davvero speciale, che lo ha visto esibirsi assieme alla band con Nick Olivieri, musicista statunitense già membro di Kyuss e Queen of the Stone Age, due delle band che hanno più influenzato il sound degli Underdogs.

Hi Simon, siete una della band più in movimento che conosca, ammiro tantissimo il vostro dedicarvi totalmente alla musica e ai vostri dischi. Cosa vi aspettate ora, dopo quasi 10 anni di attività, da questa esperienza? Grazie, mi fa piacere! In effetti ci siamo dedicati molto al progetto UNDERDOGS, personalmente sono stati 10 anni molto intensi. Ho sempre seguito da vicino quasi tutti gli aspetti “manageriali” relativi alla band e un po’ di stanchezza alla lunga è arrivata, più mentale che fisica. Ma poi capitano serate come quella FANTASTICA di ieri, con Nick Oliveri, e riprendi fiato per un altro allungo. Cosa ci aspettiamo? La situazione è sempre stata incerta per via del contesto italiano, con la conseguente difficoltà di emergere ed avere delle possibilità concrete rispetto all’estero. Quindi me la vivo giorno per giorno, cercando di fare il massimo ma senza più ammalarmi come qualche tempo fa. Ci si crede ancora, ci si mette ancora tutto il cuore e si spera sempre. Fortunatamente si fanno piccoli passi avanti e di soddisfazioni personali ne arrivano.
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Heavy cloud, but no rain.

Police Ghost in the MachineGhost in the Machine | The Police (A&M, 1981) È  la cover, piuttosto enigmatica, che ancora oggi fatico a decifrare, il motivo che mi ha spinto all’ascolto di questo album. Nel 1981 non avevo ancora compreso cosa significassero i Police per la musica pop. Anni di frequentazione mi hanno introdotto sempre di più tra i solchi di un’opera a tratti cupa, spesso ossessiva, ma pulsante e mai noiosa. Piazzato in seconda posizione il singolo, mai banale, che Sting riesce sempre a scrivere, Ghost in the Machine sposa un’attitudine sospesa tra funky e progressive (Hungry for You & Secret Journey), lasciando solo alcuni episodi al mood punky reggae che li ha resi celebri (ottima Re-Humanise Yourself). Ghost in the Machine è un cielo d’estate prima di un temporale. Fresco, livido e lacerato dal vento, che gioca tra le sue nuvole inquieto, reinventandole senza sosta. Non piove mai, perché Andy Summers è un talentuoso astronauta, Stewart Copeland ha la forza di una nave spaziale e Sting sembra una supernova travestita da Arthur Koestler, la cui scrittura gli ispira i testi. Deliziosa la produzione di Hugh Padgham.

HIT & RUN: Kory Clarke.

Kory Clarke

In attesa di ascoltare “Payback’s a Bitch”, il suo ultimo disco, Kory Clarke mi concede un volo a trecentosessanta gradi su musica, politica e curiosità personali. Sono cresciuto con i Warrior Soul, ho amato la loro rabbia e il loro sound, un mix formidabile di punk e rock and roll che mi ha sempre ispirato. Questo dovrebbe già dirvi tutto. Facciamo partire il nastro e godiamoci le parole di un artista libero, che non ha perso l’occasione per spiazzarmi e sorprendermi… 

Sei nato nella Motor City, la patria di Iggy & the Stooges e della Motown. Cosa ha significato per te nascere in una città come Detroit? Non so cosa ci sia nell’aria, tanta musica viene fuori da Detroit e poche città al mondo possono vantare una simile quantità di buona musica. E’ bello venire da Detroit, tuttavia non vorrei vivere lì.

So che, in quegli anni, dopo un breve soggiorno a Londra ti sei trasferito a NY. Cosa pensi della città che più amo e nella quale, se non sbaglio, hai vissuto parecchio? Ora è un insieme di ragazzini ricchi, yuppies e teste di cazzo di Wall Street. Quando vivevo lì, negli anni ’80 e ’90, era una città senza legge, eccitante e divertente. Ho il timore che cadrà a pezzi prima che possa farci ritorno.

Nei tuoi testi c’è una costante attenzione al sociale, all’alienazione della società moderna, alla politica come feroce controllo sulle nostre vite. È nata prima l’esigenza di essere un musicista o quella di denunciare come cittadino lo stato delle cose? Io voglio solo andare al bar. Non mi interessa la politica o la società, dico solo cosa penso. Quando comincio a preoccuparmi per qualcosa sembra che poi vada sempre a finire male, con la gente che non ci crede o crede che io sia un imbecille, specialmente in America. Ma tutto questo non significa che non mi piacerebbe fare una rivoluzione.

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HIT & RUN: Atma Anur

sam-Atma-Anur1Non succede tutti i giorni di intervistare un musicista del livello di Atma Anur, batterista inglese che vanta la partecipazione ad oltre centoquaranta episodi discografici, una vera macchina da guerra che si muove agilmente tra ritmi latin, jazz, hip hop, rock e metal. Uno dei protagonisti della magica stagione della Shrapnel Records, fucina di talentuosi chitarristi negli anni ‘80, ma non solo. Musicista aperto a più collaborazioni, sempre in perenne movimento, appassionato e generoso anche nel raccontarsi, ha collaborato negli ultimi anni con alcuni interessanti chitarristi italiani, come Steve Saluto, Marco Sfogli e Luca Zamberlin. Tralascio volutamente ogni riferimento alla sua storia o alla lista dei dischi che lo vedono protagonista, vi cito i nomi di Richie Kotzen e Billy Sheehan solo per fornirvi qualche coordinata…  

Benvenuto Atma! Che emozione, è un piacere averti come ospite per Gene Master Volume blog. La prima cosa che desidero chiederti è relativa alla New York degli anni ’70, luogo dove tu hai vissuto da giovanissimo. Come ricordi quei giorni e che vibrazioni c’erano nell’aria? New York è un luogo magico in generale. Creatività e passione sono ovunque volgi lo sguardo. Mi ricordo la sensazione che tutto fosse possibile, ero sempre entusiasta della vita. Raramente in altre parti del mondo ho avuto quel tipo di sensazione. La cosa migliore del trascorrere la mia adolescenza in una città come NY è stato il contatto con differenti identità culturali e musicali, cosa normale a New York. Ho avuto la possibilità di vedere e ascoltare tutti i tipi di musica e ballo, eseguiti da artisti originali, latin, jazz, funk, rock, africani, indiani e molto, molto di più. Qui ho iniziato i miei studi, frequentando la Manhattan School of Music e la biblioteca Lincoln Center Music. Suonare per le strade Manhattan  mid -town e down- town alla fine degli anni ’70, con band e formazioni differenti, in duo o in sestetti jazz, è stata una grande esperienza di apprendimento per me. Ho incontrato e jammato con alcuni dei migliori musicisti che abbia mai incontrato.

Nel 1981 ti sei spostato a San Francisco. Quali differenze hai trovato vivendo sulla West Coast? La costa occidentale degli Stati Uniti è un posto molto bello. C’è un sacco di fermento culturale, l’industria della musica è molto viva. Le persone sembrano avere un approccio diverso all’arte e alla musica rispetto alla costa orientale. Sono stato molto fortunato ad allacciare alcuni importanti contatti durante i miei anni in West Coast. Qui ho fatto i miei più grandi concerti e qui ho ancora tanti amici di lunga data. Continua a leggere

OJM. Tuoni e vulcani rock.

OJM A qualche chilometro da casa mia, dalle parti di Montebelluna e Treviso, esiste quella che definirei ‘riserva rock’, composta da personaggi e musicisti che si dedicano con passione alla causa, pur vivendo in contesti che di rock hanno spesso ben poco. Appartengono a questa positiva esperienza gli OJM, band di riferimento della dinamica Go Down Records, che proprio da queste parti ha importanti radici. Non conosco alla perfezione la storia della band e non frequento assiduamente i locali dove i quattro si esibiscono, ma, per svariati e buoni motivi, ho un ottimo rapporto con tutto il personale OJM. È gente concreta e dotata di talento, che vive su un altro binario, complice l’aria delle colline e la lontananza dalla città. Gente che non parla di rock, lo vive. Proprio lì, ai piedi delle montagne, suonano, scrivono e producono dischi come si deve, vantando con merito una dimensione artistica non comune, che sopravvive se credi che il tuo obiettivo non sia fare la rockstar, ma il musicista.  Continua a leggere

Badlands, nothing but the truth.

BadlandsBadlands | Badlands (Atlantic,1989) Metti insieme uno dei più brillanti chitarristi della scena hard rock statunitense e un cantante da favola come Ray Gillen e il gioco è fatto. Non è sempre andata così, ma in questo caso il risultato è pura eccellenza, un capolavoro inossidabile che ha la statura dei classici. Gli anni ottanta volgono al termine e i Badlands decidono di affidarsi al blues. Un blues duro, roccioso, pesante e in un certo senso inedito, perché il Jake E Lee e la chitarra che hanno servito fino a poco tempo fa l’Ozzy di The Ultimate Sin, non c’entrano nulla con la purezza sonora di Badlands. Qui non ci sono filtri e nessuna rete, qui si suona e si salvi chi può. Inutile descrivervi cosa accade lungo le dieci tracce che compongono questo masterpiece, come ogni riff risulti vero e abrasivo, di come Ray Gillen si dimostri un cantante straordinario – a livello del miglior Robert Plant – e di come Eric Singer e Greg Chaisson siano una sezione ritmica perfetta per il lavoro in questione. Un disco che non ha davvero bisogno delle mie parole, quindi procuratevelo e gettate nel cesso quello che state ascoltando. Iniziate pure dall’ultima canzone, Seasons, poi capirete cosa intendo. Undici/decimi, con lode.