Rock & Roll is Dead | The Hellacopters (Universal International, 2005) È risaputo, la rotta ci spinge verso Nord. È da lì che nascono band come gli Hellacopters e dischi come Rock & Roll is Dead, capace di suonare fresco e ispirato come dieci anni fa. Perfettamente bilanciato tra pop, blues e rock, Rock & Roll is Dead è un’opera in grado di ambire serenamente allo status di classico. Ogni brano possiede un arrangiamento dannatamente convincente, nasce ispirato da Stones e MC5, ma cresce senza nessun riverenza, facendo ponte tra le due coste dell’Atlantico, tra garage, glam e rock di fine ’60. Va oltre le etichette, le inutili definizioni e le tante parole che spesso si sprecano per descrivere un disco. Rock & Roll is Dead vola alto per scrittura, produzione ed esecuzione, ma soprattutto per la passione, quasi southern, che trasmette e comunica quasi con leggerezza, tanto è gradito lo scorrere veloce dei suoi tredici brani. E se gli Hellacopters nascono in Svezia, allora la geografia della musica non ha davvero più senso. Top songs: Everything’s on TV, I’m With The Band, No Angel to Lay Me Away.
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No, No e No!
Crazy Nights | Kiss (Mercury Records, 1987) Crazy Nights fa parte di quel trittico di album piuttosto trascurabili che culmina nel deludente ed incerto Hot in the Shade, del quale scrissi un paio di giorni fa. Quel che lo distingue sono il suono – in linea con le migliori produzioni del tempo – e la coerenza stilistica. Dalla prima traccia all’ultima, Crazy Nights avanza infatti uniforme e senza sbavature, lasciando in ombra l’anima originaria della band, rimpiazzandola con un rock plastico e radiofonico. Tre episodi sono degni di nota: la piacevole title track, Reason to Live – ballad ultra patinata alla Foreigner – e Turn On the Night, a mio parere il pezzo più convincente del disco. Il resto è al di sotto alla linea di galleggiamento che la mia indulgenza di diciottenne tracciò al tempo. L’abisso lo abbraccia ancora una volta Gene Simmons con No, No, No, pessima canzone introdotta da un inutile, anonimo, assolo di Kulick. Forse ha ragione il buon mikeladano a considerare il periodo in questione come “the absolute lowest point of this era of Kiss”. Difficile ascoltare oggi Crazy Nights con lo stesso, innocente, entusiasmo di allora. 5/10
One of the worst.
Hot in the Shade | Kiss (Mercury Records, 1990). Ascolto l’album sul tragitto casa – lavoro – casa. Alcuni momenti di gloria, seppur piuttosto modesta, ci sono. Quindici canzoni però sono decisamente troppe. Rise To It, Betrayed, Hide Your Heart e Silver Spoon funzionano. Bruce Kulick è davvero un chitarrista notevole, Eric Carr non tradisce le aspettative e canta pure un discreto pezzo, Little Caesar. Poi il disco va in picchiata fino a Boomerang, la più brutta canzone scritta dai Kiss. Hot in the Shade è un album intermedio, ha un sound povero e una copertina orribile. Inferiore al tanto vituperato Crazy Nights, superiore per coerenza e stile. 3/10.
Where I was in ’82.
Denim & Leather | Saxon (Carrere Records, 1981) Due casse dotate di woofer immensi e un potente amplificatore della Technics tennero a battesimo l’ascolto di Denim & Leather, opera fondamentale per la discografia dei Saxon. Mi trovavo a casa del mio fratello acquisito, Fabrizio, vera fucina di ascolti di ogni genere, heavy, rock, reggae. Sfilato il disco e ammirato il retro copertina dedicato alle due ruote, ci bastò un attimo: la puntina s’infilò tra solchi del vinile e rese quasi eroico il nostro pomeriggio. I Saxon suonavano proprio come avremmo voluto, rudi e roboanti, lontani dalla musica italiana, dal pop più banale e dall’eco degli anni ’70. Erano pura adrenalina per la nostra adolescenza in rampa di lancio. Incantati per mesi ad osservare la label color prugna della Carrere Records girare a 33 giri per minuto, non vedevamo l’ora di ripercorrere la set list per intero. Riascoltavamo all’infinito Play It Loud, Never Surrender, And the Bands Played On e ovviamente Princess of the Night, singolo dell’album che apriva il lato A. Era il 1982 e sono trascorsi tre lunghi decenni, ma ancora oggi Denim & Leather mi svela passaggi ritmici, arrangiamenti e assoli – quello di Midnight Rider è meraviglioso – capaci di accendermi e ricordare quel momento come una benedizione, oltre che un momento di fraterna amicizia. 9/10.
Not just a stupid fuckin’ rock and roll album!
Payback’s a Bitch | Kory Clarke (Livewire/Cargo Records, 2014) Al diavolo! Inizialmente non sapevo che cosa scrivere di Payback’s a Bitch. Poi ho cominciato a vedere il sentiero, seguire le sue tracce e riconoscerlo. È uno di quei dischi rivelatori, multiforme, dai toni e dalle timbriche variabili, ai quali alla fine devi arrenderti. Rivelatore, perché Kory Clarke, oltre a qualche episodio marchiato a fuoco dal suo ben riconoscibile punk rock and roll, ci fa saltare, commuovere e quasi ballare. Tra il sound nero di Detroit, i T-Rex, Tom Waits e qualche escursione elettronica – non completamente riuscita – Payback’s a Bitch ci mette comunque con le spalle al muro, ascolto dopo ascolto. La title track apre il disco nel miglior modo possibile, Get Down to Business è un funk magistrale, Freak e Hoezone suonano come i Warrior Soul più convincenti e Rock N’ Roll Genocide ha un irresistibile ritornello anni ’80. Detto questo, sono però The Last Hand e Meet Me in Las Vegas ad alzare il livello di quest’opera. Due gemme preziose, intime e splendidamente interpretate, che scoprono una voce che non credevo così calda ed emozionante. E’ bello sapere che anche quando la partitura musicale vira verso lidi diversi, Kory Clarke è sempre in grado di regalarci grandi canzoni. Payback’s a Bitch è un disco che non ha paura, libero e consapevole del proprio valore, un vero peccato trascurarlo.
Payback’s a Bitch esce il 22 settembre attraverso Livewire su tutte le principali piattaforme digitali (Amazon, HMV, etc)
HIT & RUN: Kory Clarke.
In attesa di ascoltare “Payback’s a Bitch”, il suo ultimo disco, Kory Clarke mi concede un volo a trecentosessanta gradi su musica, politica e curiosità personali. Sono cresciuto con i Warrior Soul, ho amato la loro rabbia e il loro sound, un mix formidabile di punk e rock and roll che mi ha sempre ispirato. Questo dovrebbe già dirvi tutto. Facciamo partire il nastro e godiamoci le parole di un artista libero, che non ha perso l’occasione per spiazzarmi e sorprendermi…
Sei nato nella Motor City, la patria di Iggy & the Stooges e della Motown. Cosa ha significato per te nascere in una città come Detroit? Non so cosa ci sia nell’aria, tanta musica viene fuori da Detroit e poche città al mondo possono vantare una simile quantità di buona musica. E’ bello venire da Detroit, tuttavia non vorrei vivere lì.
So che, in quegli anni, dopo un breve soggiorno a Londra ti sei trasferito a NY. Cosa pensi della città che più amo e nella quale, se non sbaglio, hai vissuto parecchio? Ora è un insieme di ragazzini ricchi, yuppies e teste di cazzo di Wall Street. Quando vivevo lì, negli anni ’80 e ’90, era una città senza legge, eccitante e divertente. Ho il timore che cadrà a pezzi prima che possa farci ritorno.
Nei tuoi testi c’è una costante attenzione al sociale, all’alienazione della società moderna, alla politica come feroce controllo sulle nostre vite. È nata prima l’esigenza di essere un musicista o quella di denunciare come cittadino lo stato delle cose? Io voglio solo andare al bar. Non mi interessa la politica o la società, dico solo cosa penso. Quando comincio a preoccuparmi per qualcosa sembra che poi vada sempre a finire male, con la gente che non ci crede o crede che io sia un imbecille, specialmente in America. Ma tutto questo non significa che non mi piacerebbe fare una rivoluzione.