Hit and Run: Underdogs, l’intervista.

Ecco gli Underdogs con un nuovo disco! E mi dico: “Speriamo che non sia registrato come il Underdogsprecedente!”. Al contrario, questo suona bene e si regge su un impianto melodico di grande impatto, con la voce di Simon – bassista e contagioso frontman – sempre in bella evidenza. Tutto è più rock, questa è la novità. Quasi il gruppo avesse inaugurato una nuova fase, forse leggermente più mainstream e nello stesso tempo più libera e avventurosa. Bellissime a mio parere sono Lies to Take Away, Nothing but the Best e Time Fighters, ma le impressioni rimangono positive anche quando gli Underdogs fanno visita ai Cardigans, reinterpretando My Favourite Game. Raccolgo le parole di Simon dopo una serata davvero speciale, che lo ha visto esibirsi assieme alla band con Nick Olivieri, musicista statunitense già membro di Kyuss e Queen of the Stone Age, due delle band che hanno più influenzato il sound degli Underdogs.

Hi Simon, siete una della band più in movimento che conosca, ammiro tantissimo il vostro dedicarvi totalmente alla musica e ai vostri dischi. Cosa vi aspettate ora, dopo quasi 10 anni di attività, da questa esperienza? Grazie, mi fa piacere! In effetti ci siamo dedicati molto al progetto UNDERDOGS, personalmente sono stati 10 anni molto intensi. Ho sempre seguito da vicino quasi tutti gli aspetti “manageriali” relativi alla band e un po’ di stanchezza alla lunga è arrivata, più mentale che fisica. Ma poi capitano serate come quella FANTASTICA di ieri, con Nick Oliveri, e riprendi fiato per un altro allungo. Cosa ci aspettiamo? La situazione è sempre stata incerta per via del contesto italiano, con la conseguente difficoltà di emergere ed avere delle possibilità concrete rispetto all’estero. Quindi me la vivo giorno per giorno, cercando di fare il massimo ma senza più ammalarmi come qualche tempo fa. Ci si crede ancora, ci si mette ancora tutto il cuore e si spera sempre. Fortunatamente si fanno piccoli passi avanti e di soddisfazioni personali ne arrivano.
Continua a leggere

OJM. Tuoni e vulcani rock.

OJM A qualche chilometro da casa mia, dalle parti di Montebelluna e Treviso, esiste quella che definirei ‘riserva rock’, composta da personaggi e musicisti che si dedicano con passione alla causa, pur vivendo in contesti che di rock hanno spesso ben poco. Appartengono a questa positiva esperienza gli OJM, band di riferimento della dinamica Go Down Records, che proprio da queste parti ha importanti radici. Non conosco alla perfezione la storia della band e non frequento assiduamente i locali dove i quattro si esibiscono, ma, per svariati e buoni motivi, ho un ottimo rapporto con tutto il personale OJM. È gente concreta e dotata di talento, che vive su un altro binario, complice l’aria delle colline e la lontananza dalla città. Gente che non parla di rock, lo vive. Proprio lì, ai piedi delle montagne, suonano, scrivono e producono dischi come si deve, vantando con merito una dimensione artistica non comune, che sopravvive se credi che il tuo obiettivo non sia fare la rockstar, ma il musicista.  Continua a leggere

The Sade: capitolo II.

II_VINYLThe Sade | II (Go Down Records, 2013) Questi The Sade mi piacciono. A parte il suono curato e potente, di questo secondo album mi convince la sferzata verso un rock melodicamente più ricercato, pur sempre condito da trame musicali immediate, mai banali e di facile presa. “II” cresce con il tempo, basta aspettare. La voce di Andrew Pozzy, sempre più espressiva e personale, si muove sopra una sezione ritmica perfetta, svelando un’attitudine garage che mi ricorda Lux Interior dei Cramps e il grandissimo Peter Steele. Le chitarre, incendiarie e taglienti, sono nel medesimo tempo capaci di fraseggi blues e parti soliste suonate con gusto e misura, ascoltatevi a riguardo la splendida Ballad of the Black Moon e il veloce assolo di Lovekiller. Non mancano episodi più classici, come l’opener rock and roll di The Werewolf e un’interessante escursione dalle parti di Johnny Cash, con la conclusiva e raffinata Devil’s Son(G). Insomma, se la promessa era evolversi senza farsi decapitare, la missione è ampiamente compiuta. Otto su dieci.

Intervista ai The Sade!

sadefotoÈ noto fino ai più remoti confini dell’universo, che il sottoscritto consideri Damned Love dei The Sade uno dei migliori dischi distribuiti dall’attivissima Go Down Records. Per questo e per altri motivi che appartengono al ‘non detto’ e potrebbero interessare a pochi,  ho deciso di dare spazio e voce ad Andrew Pozzy: voce, chitarra e anima di questa brillante formazione e del loro disco d’esordio.

Cosa avevate in mente quando avete iniziato a comporre Damned Love? Damned Love è una sorta di piccolo concept, composto da alcuni dei primi brani scritti per il primo EP, poi riarrangiati, e da altri pezzi scritti in seguito. Pur essendo un album eclettico, nelle liriche tutti i pezzi sono legati da un filo conduttore riassumibile nel titolo del lavoro stesso: “amore e sesso, dannazione e rock n’ roll”. Parlano di esperienze personali vissute e sentite. Dal punto di vista musicale si notano le nostre maggiori influenze e quelle che soprattutto predominavano all’inizio del progetto The Sade, delle quali abbiamo fatto un bel mix, filtrato dalle nostre personalità, fino a raggiungere uno stile più personale che è andato a coniare e rafforzare l’identità della band.

Siete soddisfatti del risultato finale? Consideriamo Damned Love come una fase di passaggio, un lavoro necessario  per trovare la nostra strada. Il risultato ci ha soddisfatto parecchio ma resta un debutto, un primo passo verso la maturità vera e propria della band e del nostro stile. E’ una sorta di “tappa” obbligatoria per lo sviluppo del nostro progetto. La soddisfazione sta  in alcune “perle” contenute nel disco, alcuni pezzi che a distanza di un anno e mezzo non ci stancano e ci hanno permesso si aprirci una strada nell’ambiente rock nostrano e non solo. Siamo soddisfatti ma siamo già in azione per fare di più e a sperimentare ancora.

C’è qualcosa che avreste ulteriormente sviluppato/migliorato?  Il budget ristretto e i tempi strettissimi ci hanno obbligato a fare un disco in velocità e in molte cose – qualche solo, liriche e parti vocali – si sarebbe potuto fare di meglio. Personalmente avrei curato maggiormente i testi, a mio parere la parte debole del disco, e avrei inserito altre canzoni nuove che erano già in parte pronte. Ma non c’è stato il tempo necessario per realizzarle.

L’esecuzione dei pezzi sono ottime, avete suonato in presa diretta? Quando abbiamo registrato il disco, severi con noi stessi, non ci ritenevamo in grado di suonare l’intero album in presa diretta. Questo ha un pò tolto quella che è l’energia live e il groove che riascoltando delle registrazioni dal vivo del Damned Love Tour ci siamo accorti di esprimere. Nel disco tutto è più programmato e pulito, in parte è una cosa voluta per distinguere i The Sade in studio dai The Sade on stage. Abbiamo suonato insieme durante la registrazione di batteria e basso, ma le chitarre sono state sovraincise in seguito, così come le voci e il resto. Continua a leggere