Ghost in the Machine | The Police (A&M, 1981) È la cover, piuttosto enigmatica, che ancora oggi fatico a decifrare, il motivo che mi ha spinto all’ascolto di questo album. Nel 1981 non avevo ancora compreso cosa significassero i Police per la musica pop. Anni di frequentazione mi hanno introdotto sempre di più tra i solchi di un’opera a tratti cupa, spesso ossessiva, ma pulsante e mai noiosa. Piazzato in seconda posizione il singolo, mai banale, che Sting riesce sempre a scrivere, Ghost in the Machine sposa un’attitudine sospesa tra funky e progressive (Hungry for You & Secret Journey), lasciando solo alcuni episodi al mood punky reggae che li ha resi celebri (ottima Re-Humanise Yourself). Ghost in the Machine è un cielo d’estate prima di un temporale. Fresco, livido e lacerato dal vento, che gioca tra le sue nuvole inquieto, reinventandole senza sosta. Non piove mai, perché Andy Summers è un talentuoso astronauta, Stewart Copeland ha la forza di una nave spaziale e Sting sembra una supernova travestita da Arthur Koestler, la cui scrittura gli ispira i testi. Deliziosa la produzione di Hugh Padgham.
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OJM. Tuoni e vulcani rock.
A qualche chilometro da casa mia, dalle parti di Montebelluna e Treviso, esiste quella che definirei ‘riserva rock’, composta da personaggi e musicisti che si dedicano con passione alla causa, pur vivendo in contesti che di rock hanno spesso ben poco. Appartengono a questa positiva esperienza gli OJM, band di riferimento della dinamica Go Down Records, che proprio da queste parti ha importanti radici. Non conosco alla perfezione la storia della band e non frequento assiduamente i locali dove i quattro si esibiscono, ma, per svariati e buoni motivi, ho un ottimo rapporto con tutto il personale OJM. È gente concreta e dotata di talento, che vive su un altro binario, complice l’aria delle colline e la lontananza dalla città. Gente che non parla di rock, lo vive. Proprio lì, ai piedi delle montagne, suonano, scrivono e producono dischi come si deve, vantando con merito una dimensione artistica non comune, che sopravvive se credi che il tuo obiettivo non sia fare la rockstar, ma il musicista. Continua a leggere
Badlands, nothing but the truth.
Badlands | Badlands (Atlantic,1989) Metti insieme uno dei più brillanti chitarristi della scena hard rock statunitense e un cantante da favola come Ray Gillen e il gioco è fatto. Non è sempre andata così, ma in questo caso il risultato è pura eccellenza, un capolavoro inossidabile che ha la statura dei classici. Gli anni ottanta volgono al termine e i Badlands decidono di affidarsi al blues. Un blues duro, roccioso, pesante e in un certo senso inedito, perché il Jake E Lee e la chitarra che hanno servito fino a poco tempo fa l’Ozzy di The Ultimate Sin, non c’entrano nulla con la purezza sonora di Badlands. Qui non ci sono filtri e nessuna rete, qui si suona e si salvi chi può. Inutile descrivervi cosa accade lungo le dieci tracce che compongono questo masterpiece, come ogni riff risulti vero e abrasivo, di come Ray Gillen si dimostri un cantante straordinario – a livello del miglior Robert Plant – e di come Eric Singer e Greg Chaisson siano una sezione ritmica perfetta per il lavoro in questione. Un disco che non ha davvero bisogno delle mie parole, quindi procuratevelo e gettate nel cesso quello che state ascoltando. Iniziate pure dall’ultima canzone, Seasons, poi capirete cosa intendo. Undici/decimi, con lode.
Deep Sabbath, una pazza idea.
Born Again | Black Sabbath (Vertigo, 1983) Born Again non è un brutto disco. Certo, è registrato da cani e mixato ancora peggio. Ian Gillan sfasciò sul muro, una dopo una, tutte le copie dell’album che la casa discografica gli aveva consegnato. Trovava la cover terribile e il suono non gli piaceva per nulla . Eppure, Born Again arrivò nella Top 40 americana e raggiunse presto lo status di disco di platino. Fa parte di quella genia di dischi nati in circostanze singolari, di solito c’è sempre di mezzo una sbronza, questa volta anche un’idea dal fascino irresistibile: i Black Sabbath con Ian Gillan, l’anima dei Deep Purple! Sembra uno scherzo, ma non lo è affatto. Tutto il lato A è una meraviglia. Parte in quarta piena con Trashed, scivola sulla sinistra Disturbing the Priest e si conclude con l’ipnotica Zero the Hero. Terra bruciata, fuoco e fiamme. Gillan è semplicemente straordinario, la sua voce è da brividi, a tratti superiore a quella del leggendario decennio precedente. In meno di quindici minuti, uno dei protagonisti di Made in Japan fa saltare il banco. Tutti a casa, i Deep Sabbath funzionano! Quel che viene dopo – Hot Line, Keep It Warm, la pregevole Born Again e il resto – è un concentrato di mestiere, esperienza e talento, in grado di fare il culo a tante band in circolazione allora e oggi. Gillan continua a urlare come un ossesso, Tony Iommi e Geezer sono roccia e Bill Ward – post rehab – è un piacere da ascoltare. No, Born Again non è affatto un brutto disco. Top song: Disturbing The Priest.
The Sade: capitolo II.
The Sade | II (Go Down Records, 2013) Questi The Sade mi piacciono. A parte il suono curato e potente, di questo secondo album mi convince la sferzata verso un rock melodicamente più ricercato, pur sempre condito da trame musicali immediate, mai banali e di facile presa. “II” cresce con il tempo, basta aspettare. La voce di Andrew Pozzy, sempre più espressiva e personale, si muove sopra una sezione ritmica perfetta, svelando un’attitudine garage che mi ricorda Lux Interior dei Cramps e il grandissimo Peter Steele. Le chitarre, incendiarie e taglienti, sono nel medesimo tempo capaci di fraseggi blues e parti soliste suonate con gusto e misura, ascoltatevi a riguardo la splendida Ballad of the Black Moon e il veloce assolo di Lovekiller. Non mancano episodi più classici, come l’opener rock and roll di The Werewolf e un’interessante escursione dalle parti di Johnny Cash, con la conclusiva e raffinata Devil’s Son(G). Insomma, se la promessa era evolversi senza farsi decapitare, la missione è ampiamente compiuta. Otto su dieci.
Don’t forget to put your helmet on.
La notte, spesso mentre cerco di riprendere sonno, ascolto Apollo: Atmospheres and Soundtracks. L’autore è Brian Eno, illustre conosciuto, pioniere della musica ambient, produttore, musicista, scrittore e componente dei primi Roxy Music. Questo disco è spaziale, nel vero senso della parola. Composto per commentare un documentario sulla missione Apollo della Nasa, Apollo: Atmospheres and Soundtracks è un isolante fenomenale. Contiene la miglior musica per allontanare tutto e tutti, gettare lo sguardo oltre l’atmosfera, rilassarsi, tornare tra le mura di casa e ricominciare a fare del proprio meglio. Buon viaggio.