Alice Cooper | Love It To Death (Warner Bros, 1971)
Un disco che ho amato fin dal primo ascolto, lontano dalla dimensione mainstream che Alice si è conquistato durante la fine degli anni ’80, con banalità tipo il pop-hit Poison e chitarristi simil Rambo come Kane Roberts. Love It To Death è il respiro genuino del Detroit sound, riportato in vita grazie alla collaborazione con Bob Ezrin, genio di produttore fuori di testa, ma saldamente dentro la musica, il primo in grado di mettere a fuoco il talento della band.
Dimenticate tutti i cliché dello shock rock che Alice ha inventato e riproposto in ogni suo spettacolo, infilate un paio di cuffie e godetevi il viaggio dal finestrino della vostra poltrona. Non sono previsti schizzi di sangue, decapitazioni e animali trucidati, anche se il seme della follia è già presente e il senso di smarrimento imminente e previsto. Caught In A Dream, Is It My Body e la delirante Ballad of Dwight Fry affiancano con classe I’m Eighteen, l’inno che scrivi una sola volta, ma ti cambia la vita, per sempre.
Un’anno prima dello sconvolgente successo di School’s Out, dell’alcool e dei tornei di golf, questo è il mio Alice Cooper.